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martedì 15 aprile 2014

FATHER AND SON di Kore-eda Hirokazu












Contano più i legami di sangue o gli affetti che si cementano lentamente nella vita passata assieme?

Voto ***½     7½


Ryota (Masaharu Fukyyama) è un benestante architetto in carriera. Dedica più tempo ed attenzione al suo lavoro che non alla moglie (Machico Ono) ed al suo piccolo figlio di cinque anni Keita (Keita Ninomiya). E’ convinto che ordine e disciplina siano fondamentali e che esser gentili sia un segno di debolezza da evitare.

Forse non è portato per il “mestiere” di padre ma il suo ruolo verrà messo davvero a dura prova quando i dirigenti dell’ospedale, dove anni addietro partorì sua moglie, gli comunicheranno che - a causa dell’errore di una infermiera - il bambino che ha cresciuto non è suo figlio bensì quello di uno squattrinato commerciante di periferia che, a sua volta, ha subito la stessa sorte ed ha allevato il figlio di Ryota.

Father and son” di Hirokazu Kore-eda (titolo originale “Like father, like son: perché cambiarlo?) riflette sui legami affettivi e su quelli di sangue, domandandosi se per un figlio contino di più coloro che lo crescono oppure chi biologicamente l'ha messo al mondo, guardando anche al ruolo dei genitori quando questi si trovano a confrontarsi con difficoltà non certo comuni ed ardue a superarsi.

Vediamo contrapposte due famiglie differenti per estrazione sociale, modo di vivere e metodologie educative. L’attenzione è focalizzata soprattutto sui padri: uno è un perdigiorno che vive all’impronta le sue giornate, passa molto tempo a divertirsi con i suoi figli e sa quanto sia importante far volare un aquilone; l’altro è completamente offuscato dalle sue aspettative e assegna “missioni” al suo pargolo, cercando di formare in lui un carattere tenace attraverso lo studio del pianoforte e la ricerca dell’eccellenza.

La regia ha un tocco soave, la resa è realistica e di grande semplicità; i movimenti di macchina controllati e di grande essenzialità.

Dopo un colpo di scena in tribunale la vera rivelazione – quella che cambierà ogni cosa - arriverà per caso, osservando gli scatti di una macchina fotografica. Solo allora tutto apparirà improvvisamente chiaro: che gli affetti non possono esser imposti per natura e nemmeno “decisi” con l'ausilio della sola razionalità.

In amore, tra “sconosciuti” che decidono di unirsi per sempre (…marito e moglie…) o consanguinei obbligatoriamente apparentati per nascita l’unica direzione giusta è quella che indica il cuore: non ci è mai possibile scegliere davvero una strada ma dobbiamo far di tutto per camminare al meglio lungo quella che ci è capitata. 

domenica 13 aprile 2014

PICCOLA PATRIA di Alessandro Rossetto















Un ritratto nero del Veneto: conflitti culturali e generazionali, desolazione, rabbia e venti di secessione.

Voto ***      8

Villafranca di Verona: osservandola dall’alto si vedono chiaramente i capannoni accanto ai campi, il bestiame ed il formicaio di veicoli sulle grandi reti stradali, gli alberghi enormi come l’ “Antares” e la sua piscina.

E’ qui che lavorano come cameriere Renata (Roberta Da Soller) e Luisa (Maria Roveran, dolcissima e sofferta la sua interpretazione). Vivono la gioventù, che per loro è l’età dei sogni ma anche delle insicurezze e dell’insoddisfazione. Le avventatezze della loro immaturità, le gelosie ed alcuni “piccoli giochi sporchi” saranno l’innesco per qualcosa di più tragico e grande di loro.

Ottimo l’esordio delle due giovani protagoniste, così come quello del documentarista ed antropologo Alessandro Rossetto. Il suo “Piccola Patria” è un film in grado di cogliere i segni del tempo e del territorio, osservandone con attenzione solo una piccolissima frazione.

Siamo in un Veneto avvolto da una cappa di negatività, dove sembra esser buio anche quando brilla la luce del sole. Scende anche la pioggia, ma non basta a lavar via il male che affiora, nè a fermare il veleno che lentamente impregna ogni zolla di terra.

Appare chiaro fin da principio che se gli “schei” (i soldi) son quel che manca ed al tempo stesso quel di cui principalmente si avverte la necessità i conflitti emergeranno presto, fino a deflagrare con disordinata urgenza.

Tasse da pagare, i prezzi nei negozi che “aumentano anche di notte”, poi vizi, perversioni e ricatti: la chiesa alla domenica e la fede in Dio mascherano a malapena l’intolleranza, i tradimenti e le tensioni. La misura è colma, rabbia e desolazione stanno per canalizzarsi e trovare il loro sfogo: gli animali forse lo avvertono, sbuffano ed annusano la nuova tempesta in arrivo.

Rossetto (grazie anche alla collaborazione in sceneggiatura di Caterina Serra e Maurizio Braucci) fotografa con intensa veridicità l’insieme delle cose e la complessità del reale, enfatizzando e dando più ampio respiro al suo racconto avvalendosi di canti che sanno d’antico e di tradizione (“L’acqua ‘ze morta” di Bepi De Marzi).

Italiani e stranieri (Africani, Arabi, Albanesi): vicinanze e similitudini ma soprattutto distanze.

Soffiano venti secessionisti: le radici di un popolo sono contaminate dai ragionamenti superficiali e dal razzismo latente, ma anche dalle frustrazioni e dalla crisi che stringe la cinghia. Oramai solo qualche vecchio ricorda gli “xenotrofi” che parecchi anni prima ospitavano i pellegrini di passaggio, quando quelle stesse terre oggi ostili accoglievano gli stranieri e dialogavano con “i diversi”.

Sguardo forte per un quadro fosco e difficile da comprendere appieno, verità e specchio di una fetta di Nazione, idealmente un monito per altre porzioni di mondo.

sabato 12 aprile 2014

GRAND BUDAPEST HOTEL di Wes Anderson














Le irresistibili vicende di un “concierge” e del suo fido aiutante, mentre il mondo e l'umanità volgono al degrado.

Voto ***      7½

In una Repubblica immaginaria (la “Zubrowka”), a cavallo tra due guerre mondiali, seguiamo le peripezie di un “concierge” (Ralph Fiennes) e del suo “protetto”, ovvero del giovanissimo aiutante Zero Moustafà (l’esordiente Toni Revolori). Anni dopo, nel 1965, lo stesso Zero (interpretato ora da F.Murray Abraham) racconterà la sua storia ad un giovane scrittore (Jude Law) che ne farà un libro, tramandando ai giorni nostri la memoria dei fatti e l’affresco di un’epoca oramai estinta.

Grand Budapest Hotel” disegna mondi “scomparsi” in punta di pastello, ricreandoli con nuove sembianze e lasciando affiorare le illusioni con grazia magistrale.

Contro la barbarie che avanza divengono indispensabili amicizia e solidarietà (memorabile la “Società delle chiavi incrociate”, una sorta di massoneria dei camerieri!); ognuno cerca il proprio rifugio romantico e sogna tutto l’amore possibile, “dalla Z alla A”!

I due protagonisti sono attorniati da un nutrito gruppo di attori importanti che, trasfigurati in maniera deliziosa, offrono la loro parte o si prestano anche soltanto per un piccolo cameo: Adrien Brody, Jeff Goldblum, Bill Murray, William Dafoe, Tilda Swinton, Edward Norton, Harvey Keitel, Mathieu Amalric, Lea Seydoux e Owen Wilson!

Lo stile di Wes Anderson è inconfondibile ed ogni cosa è confezionata con gusto, come fosse un dolce della prelibata pasticceria di “Herr Mendl”. La storia c’è ma è soprattutto una scusa per ricreare atmosfere d’altri tempi, per dare vita a situazioni stravaganti, garbate ed eleganti, per trascinare lo spettatore nel bel mezzo di inseguimenti divertenti come quelli dei disegni animati.

E’ un fiorire continuo di creatività e colpi di macchina da presa studiatissimi, di citazioni “bizarre” (dal quadro di “Ragazzo con mela” alle pittoresche squadracce Naziste in versione addolcita, riveduta e corretta). Risaltano le geometrie ed i colori saturi e, se in mezzo a tanto rosso, rosa, azzurro e viola, tra le iperboli fantastiche e l’immaginazione che piove a catinelle noterete la mancanza di un po’ di concretezza, abbiate la compiacenza di “perdonare”, perché tutto il resto funziona davvero alla perfezione!

Le storie si vivono oppure si raccontano soltanto. In molti casi si scrivono affinchè altri possano leggerle. Talvolta capita che registi dal grande talento come Wes Anderson ne ricavino il loro singolarissimo ed intrigante cinema, un qualcosa di unico ed indefinibilmente sospeso tra fumetto e pellicola d’autore.

martedì 8 aprile 2014

TIR di Alberto Fasulo




Vivere o guadagnare? La vita itinerante di Branko, tra fatica ed alienazione.

             Voto ***     7


Il regista Friulano Alberto Fasulo entra in contatto con il micro-cosmo dei camionisti dopo un autostop e, colpito da questo particolare universo lavorativo, decide di dedicarvi una pellicola.

Così recluta l’attore Branko Završan e fa in modo che venga addirittura assunto a tempo determinato, presso una ditta di Trasporti di Verona. Tra approfondimenti, indagini e materiale girato, al termine di quattro anni di lavoro presenta la sua pellicola al Festival Internazionale del Film di Roma, vincendo il Marco Aurelio d’Oro.

Chi è il protagonista di “Tir”? Un uomo in perpetuo movimento lungo strade asfaltate e distaccato dalla comune realtà quotidiana, alienato in un mondo solitario e distante migliaia di kilometri ogni volta che la famiglia ha bisogno di lui. Durante una conversazione le parole di sua moglie – lontana, all’altro capo del telefono – suscitano in lui un leggero sentimento di gelosia, che però cede immediatamente il passo alla stanchezza: tempo e fatica sono sovrani tiranni!

Il camion è una residenza itinerante, un surrogato viaggiante di abitazione; l’abitacolo del mezzo supplisce alla mancanza di un letto ma non alla sua accoglienza ed il sonno, consumato in giacigli di fortuna, difficilmente ristora davvero.

L’obiettivo di Fasulo è costantemente su Završan e quando stacca è per triangolare immagini con gli specchietti retrovisori, scrutando ai lati delle strade o dietro le vetrine delle stazioni di servizio.

Molte le giornate condensate in meno di un’ora e mezzo di film: trafelati “(in)seguiamo” sullo schermo tutto quanto accade ed a mano a mano ci sfianchiamo anche noi osservando Branko caricare le merci, attendere le istruzioni e spostarsi sul suo mezzo da una città all’altra.

Ad ogni fotogramma che passa si incrina un po’ di più anche la nostra resistenza: ci sentiamo sfibrati per riflesso, probabilmente oppressi da una metafora della vita che in qualche misura cominciamo a figurarci come assimilabile alla nostra. Riconosciamo la similitudine dello stress ed alcuni ritmi pressanti ci risultano improvvisamente familiari.

Del film ci sfiora molto da vicino quel bivio dell’esistenza dove si è costretti a scegliere (qualora questo sia possibile!) se sia meglio vivere o guadagnare. Constatiamo dunque che il teorema di fondo ci riguarda ed a malincuore realizziamo che, pur essendo differenti e forse meno esposti alle intemperie della vita, non ne siamo poi così distanti, né del tutto al riparo. 

sabato 5 aprile 2014

LA LUNA SU TORINO di Davide Ferrario


Sotto le stelle di Torino tre amici si muovono con passi incerti cercando la felicità.

Voto ***           7


Ugo (Walter Leonardi), Maria (Manuela Parodi) e Dario (Eugenio Franceschini) vivono assieme nella stessa casa, a Torino. Il loro tempo scorre coltivando i dubbi e le incertezze, in romantiche attese, inseguendo le passioni ed i sogni. E’ il loro modo per provare a sbrogliare la matassa della vita, per farci i conti e infine venirne a capo (... arrivare “fino in cima”….).

Torino è ancora una volta il set di Davide Ferrario ma lo sguardo è universale, su tutto il mondo, che si distende idealmente lungo il 45° parallelo, dove è posizionata la città Piemontese, equidistante dai Poli e sulla stessa linea della Mongolia.

Chi sono davvero i nostri simili? Chi ci sta accanto o chi si trova dall’altra parte del mondo?

Recuperando l’anima passionale ed arrabbiata di Giacomo Leopardi (molte le citazioni prese a prestito dal poeta) e costruendo una storia su tre personaggi stralunati - che si muovono in situazioni ondeggianti tra il surreale, il poetico e lo svagatamente filosofico - vengono poste domande “pesanti” ma con grande levità.

Sotto le stelle, nel bioparco di Torino è la voce di “Radio Radicale” che tiene distanti le faine dai pinguini; falce e martello invece servono oramai solamente ad allontanare l’avvocato che vuole prendersi l’appartamento.

Cosa è vivere? Lasciar scorrere, camminare, leggere, guardare, stare in equilibrio, aspettando che qualcosa succeda. Sarà forse un “provvidenziale” sfratto da casa ad aiutare qualcuno a trovare la giusta rotta “sul pianeta” e tra le relazioni umane, tagliando di netto il cordone ombelicale che legava alle incertezze.

Tre “comici spaventati sognatori” cercano titubanti la propria felicità: si appoggiano teneramente l’uno sulle spalle dell’altro e si apprestano ad avventurarsi nella propria vita.

giovedì 3 aprile 2014

NYMPH()MANIAC – Vol.1 di Lars Von Trier


Molto piu’ filosofia che sesso: disattende in larga parte le aspettative voyeristiche il Vol.1 di Nymph()maniac.

Voto ***           7



Ce lo dice quasi subito Joe (Charlotte Gainsbourg): “La storia sarà molto lunga e avrà una morale”. Così noi spettatori ci disponiamo di buon grado ad ascoltare; peccato che a metà percorso ogni nostra curiosità rimarrà sospesa, ad aspettare le conclusioni a venire nella seconda parte.

Stiamo parlando di “Nymph()maniac” di Lars Von Trier e nello specifico del “Vol.1”, nella versione sforbiciata di mezz’ora per mano altrui ma “approvata” dall’autore (..!..). Verso fine Aprile la parte mancante, dunque – nemmeno a dirlo – trattasi di un “coito interrotto”!

Nel lancio pubblicitario hanno tenuto banco attese scandalistiche e “leggende pornografiche” ed a dire il vero anche la locandina fa di tutto per alludervi furbescamente, con gli attori uno di fianco all’altro in espressioni “soffertamente orgasmiche”; eppure nel film il sesso è solo una base di partenza, una chiave di lettura oppure uno strumento per aprire porte ed esplorare “altro”, soprattutto “filosoficamente”.

Joe racconta le sue esperienze carnali all’anziano Seligman (Stellan Skarsgård), che l’ha raccolta sanguinante in mezzo alla strada. Durante le sue “confessioni” si incrociano e si confrontano i diversi punti di vista: gli aneddoti vengono rivisitati attraverso le esperienze della pesca oppure accostati alle polifonie di Bach.

Destano curiosità ed attraggono gli egoismi e le “strategie”, i traumi infantili, l’insensibilità e la conseguente voglia di autodistruzione; affascinante il tentativo di legger l’anima degli alberi, guardando i rami ed i tronchi “nudi”, d’inverno. Non fanno davvero paura invece le “innocue provocazioni blasfeme” tra le quali possiamo annoverare di certo il “Mea vulva, mea maxima vulva”.

L’apparizione “geniale ed anticonvenzionale” della “Signora H/Uma Thurman” è un raggio di luce: fa incursione nella pellicola con grande bravura ed un pizzico di follia, portando i suoi tre figli al seguito per fargli visitare il “letto della puttana” che le sta soffiando il marito.

Le premesse e l’impianto del film promettono bene, tutto sembra appetitoso e nell’aria si spande profumo di grande cinema, anche se si conta già qualche furbo innesto didascalico di troppo (non ci è ancora dato sapere se veramente utile allo scopo): deliri di Allan Poe, numeri di Fibonacci ed una frase dalla “Lettera a Meneceo” di Epicuro (meglio conosciuta come “La lettera sulla felicità”). Sottofondo musicale di Šostakovič e dei Ramstein.

Per tirar fuori un senso da un racconto bisogna crederci”, afferma sempre la Joe/Gainsbourg del film. Noi vorremmo anche, ma per il momento siamo obbligati a non conoscerne la fine e questa distribuzione della pellicola, frammentata e dissennata, sembra essere al momento l’unica “perversione” realmente riscontrata riguardante il film di Von Trier.

mercoledì 2 aprile 2014

IN GRAZIA DI DIO di Edoardo Winspeare


Quattro donne in difficoltà economica a causa della crisi: un film duro, che però non abbandona mai l’ottimismo e la sua tenerezza di fondo.

Voto ***          8


Nel Salento assolato la crisi azzanna feroce chi tenta di tenerle testa e le fabbriche del tessile vedono le commesse fuggire verso oriente. C’è chi ha già ricominciato a batter le vecchie vie dell’emigrazione con destinazione Svizzera mentre qualcun altro riscopre l’antico rapporto con la terra.

Winspeare racconta di una famiglia in drammatica difficoltà economica. Quattro donne: l'anziana mamma Salvatrice (Anna Boccadamo), la figlia grande Adele (Celeste Casciano, moglie del regista), che ha dovuto chiudere la sua attività imprenditoriale ed ora è ossessionata dai debiti, la sorella minore Maria Concetta (Barbara De Matteis) che sogna di fare l’attrice ed infine Ina (Laura Licchetta), figlia di Adele (nella finzione ed anche nella vita reale). Venderanno casa e azienda e torneranno a fare vita contadina nella masseria di campagna.

Il groviglio di sentimenti intrecciati ed oppressi dalle difficoltà è descritto con impeto sincero e raccontato con una serenità che sembra voler diradare le aggressive atmosfere cupe; alcune tensioni interne familiari sono rese con naturalezza magistrale e i sentimenti emergono a fior di pelle.

Winspeare tratteggia protagonisti smarriti ma reattivi, animi gonfi di rabbia, resi ostili dalle traballanti prospettive e da anni di sacrifici bruciati in un istante, ma anche l’importanza di ben disporsi alla vita, del soccorso importante della saggezza contadina e della forza della famiglia (qui a trazione matriarcale), la forza insinuante e determinante della gentilezza e della pazienza (basta guardare al personaggio di Stefano/Gustavo Caputo)

Ritorni al baratto e pomodori essiccati al sole: l’obiettivo si muove leggero tra strade affollate di ulivi, tra le marroni terre coltivate e l’erba verde mossa forte dal vento, quasi a voler rinforzare anche visivamente la simbiosi troppo spesso dimenticata tra uomo e natura e carezzando il film con attimi di silenzio e di pace.

Sceneggiato con Alessandro Valente e girato a Giuliano di Lecce con attori non professionisti, “In grazia di Dio” è duro ma senza abdicare nemmeno per un istante alla sua tenerezza di fondo, così da trasmettere continuamente un senso di fiducia e speranza piuttosto che di disperazione.

Il finale non scioglie tutte le tensioni, né rischiara definitivamente l’orizzonte ma si avverte avanzare un ottimismo capace di rendere la vita qualcosa di sempre desiderabile ed inebriante. 


martedì 1 aprile 2014

QUANDO C'ERA BERLINGUER di Walter Veltroni
















Il Berlinguer di Veltroni, tra nostalgia, rimpianto e qualche eccesso di enfasi.

Voto **½         6½

Chi era Enrico Berlinguer? Un commissario? Uno scrittore di romanzi? Forse dal cognome un politico Francese, ma sarà stato di destra o di sinistra? A giudicare dalle risposte montate all’inizio della pellicola i giovani d’oggi non hanno davvero un ricordo nitido del più importante Segretario del Partito Comunista Italiano.

Per corroborare la memoria l’ex leader dei Democratici Walter Veltroni esordisce alla regia e confeziona un ritratto del suo maestro politico, mettendo insieme soprattutto testimonianze e filmati di repertorio, montati con sincera nostalgia e qualche eccesso di enfasi.

Un italiano su tre votava comunista alla metà degli anni ’70: erano tempi di grandi conquiste referendarie su questioni quali l’aborto ed il divorzio ed in cui si inseguivano ancora progetti politici di lunga lena. Un comunismo “diverso” provava a diventare forza democratica di governo ma sarebbe inciampato sul passaggio cruciale del “compromesso storico”.

Un’anima bella; un uomo integerrimo; un timido con il martello, che non è mai stato incudine”: nel ricordo di chi lo ha conosciuto (il Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, Eugenio Scalfari, la figlia Bianca, il capo scorta Menichelli e molti altri) emerge il ritratto di un uomo d’altri tempi, convinto della indispensabilità del buona pratica quotidiana della politica, che forse davvero credeva di poter cambiare le cose perseguendo un futuro migliore per tutti.

Nella pellicola di Veltroni - un tentativo per quanto più possibile onesto ed oggettivo di ricostruire un lungo arco di storia Italiana partendo da una figura simbolica - si affaccia anche Gaber, con le immancabili e quanto mai calzanti parole di “Qualcuno era comunista”. Fugaci ma coraggiose le sortite che puntano il dito sulla commistione dei poteri tra le banche e la politica, accennando al caso Ambrosoli; poi spazio anche alle ipotesi di Alberto Franceschini – uno dei fondatori delle Brigate Rosse – sul sequestro del magistrato Mario Sossi, ma nella sostanza nulla emerge di particolarmente nuovo o rivelatore.

Chiudono gli interminabili minuti dell’ultimo comizio di Padova nel giugno del 1984 – il giorno prima della sua morte - con Berlinguer che prosegue a parlare dal palco anche se sofferente, fino alla fine, quasi piegato su se stesso mentre la folla urla il suo nome: in quella resistenza e nella voglia di non cedere forse vi era il segno di una politica di altra tempra.

Subito dopo - in concomitanza con il suo funerale - sarebbe cominciata una lenta agonia politica della sinistra italiana: chi piangeva ai bordi della strada applaudendo al passaggio del feretro, non sospettava affatto dei futuri imprevedibili ed innumerevoli cambiamenti, nè delle “diverse” sofferenze che avrebbe dovuto affrontare per lungo tempo ancora.

lunedì 31 marzo 2014

FUORISTRADA di Elisa Amoruso



La famiglia ideale è allargata e senza distinzione di genere.

Voto ***       7½



Giuseppe Della Pelle di mestiere fa il meccanico a Roma, nel quartiere San Giovanni. Durante il tempo libero si diletta con il suo fuoristrada e per il “gruppo del Rally” è “Girello”, il suo soprannome. Per tutti gli abitanti del quartiere ed i clienti della sua officina invece è Pino, ma lui troverà infine il coraggio di apparire per quello che “sente” e diventerà Beatrice.

Poi, quando gli ormoni avranno già mutato decisamente il suo aspetto – ma non il suo sesso - incontrerà la badante Rumena Marianna “Marioara” Dadiloveanu. Si innamorerà – ricambiato - e la sposerà. Tutt’ora convive assieme a lei ed al figlio Daniele - che oramai è un Romano d’adozione e non più uno straniero - per il quale è la figura paterna che mancava. Nella stessa casa c’è posto anche per la madre centenaria che, a piccoli passi quasi inconsapevoli, ha accettato amorevolmente e di buon grado di avere una figlia anziché un figlio.

Il ritratto di questa famiglia felice e - perché no! - di questo “modello di nucleo affettivo”, è assolutamente vero e non è opera di finzione. Lo porta sul grande schermo con un lavoro ben riuscito di “sensibilità registica” la giovane sceneggiatrice Elisa Amoruso, che ci restituisce tutta l’atmosfera di schiettezza e serenità nella quale si è trovata coinvolta durante la realizzazione di “Fuoristrada”.

Ci sono molti elementi singolari in una storia che sembrerebbe quasi obbligata a sconfinare nel ridicolo o nel grottesco: immigrazione e transessualità, vite ed infanzie difficili, diversità ostentata con coraggio. Eppure il rischio non viene nemmeno lontanamente sfiorato, forse perché sentimenti e sincerità non possono mai andare davvero sopra le righe!

Tenerezza ed armonia dominano e diffondono un’aura di stupefacente normalità. A dispetto di ogni pregiudizio vediamo la sfera affettiva dei nostri “stravaganti” protagonisti ad ogni istante rinsaldarsi ed acquisire chiarezza.

Tutto quello che potremmo desiderare e basterebbe ad ogni essere umano è conquistato con coraggio e molta semplicità da chi ha compreso che per farlo bisogna solamente essere se stessi, mantenere una porta aperta ai propri sogni e non stancarsi mai di tener viva la propria felicità.

Potreste rischiare di stupirvi - senza alcuna buona ragione! - nel vedere tanta normalità e pacifico vivere mischiato a tutto quello che molti si rifiutano di vedere e di accettare, ed è forse proprio questo il motivo principale per cui dovreste assolutamente considerare come necessario l’incontro con questa storia semplice ed illuminante. 

venerdì 21 marzo 2014

JIMMY P di Arnaud Desplechin


La storia vera dell’incontro di James Picard con l’antropologo George Devereaux.

Voto ***      7


James Picard (Benicio Del Toro) è un nativo americano della tribù dei “BlackFoot”. Soffre di gravi disturbi (cecità temporanea, perdita dell’udito, fortissime emicranie), forse dovuti ad una ferita al cranio che si è procurato durante la seconda guerra mondiale. 

Così da Browning nel Montana - dove vive in un ranch assieme alla sorella – si reca al “Winter” di Topeka, un ospedale del Kansas per “cervelli fuori uso”.

Dopo accurati controlli risulterà essere un “invalido in perfetta salute” ma, per fugare gli ultimi dubbi al riguardo di una sua ipotetica schizofrenia, verrà chiamato l’antropologo e pioniere dell’ “etno-psichiatria” Georges Devereux (Mathieu Amalric), uno studioso della cultura dei “Mohave”, con i quali ha convissuto per ben due anni nel deserto.

Il film di Desplechin ruota praticamente tutto attorno all’ incontro di questi “due diversi”: un mite e taciturno indiano ed un eclettico e provvidenziale medico. Il primo vive in un mondo di bianchi dopo aver conosciuto la “riserva” ed ora, ad ondate liberatorie di un’ora al giorno, consegna tutti i suoi incubi ed i suoi ricordi nelle mani di un professore avanguardista della psicanalisi, che è guardato da alcuni suoi colleghi con un certo scetticismo.

Quest’ultimo - calatosi anche nel ruolo di “sciamano” e “castoro protettore” (…!...) - prende febbrilmente appunti, cercando di fare del suo meglio per scoprire le cicatrici invisibili del suo paziente e correggere gli errori del passato.

Basato su una storia vera e sul libro dello stesso Devereux “Psichotherapy of a plains indian” (Psicoterapia di un indiano delle pianure) il film di Desplechin è tutto a “trazione verbale” e si affida alla più che valida interpretazione di Del Toro ed Amalric.

Chi non ama molto i film dove gli attori frequentemente cedono il passo alle parole si astenga dalla visione. Tutti gli altri si godano pure il lavoro di questo regista Francese capace di recuperare storie marginali ed interessantissime.

Jimmy P.” potrebbe risultare ostico e persino monotono se non se ne arrivassero a cogliere le molte “rivelazioni” di diversa natura, che scaturiscono dalla fitta chiacchierata tra i due protagonisti. Le risposte sembrano non arrivare mai ed invece sono innumerevoli, sparse ovunque e non solo nell’evidenza dell’epilogo.